Venerabile Servo di Dio José María Arizmendiarrieta – Seconda Parte
Presentiamo la seconda parte di una breve biografia di Padre José María Arizmendiarrieta.
La prima parte la trovate a questo link. Per le altre parti: terza parte
José María Arizmendiarrieta non si limitò, però, ad istruire i suoi studenti, ma pensò che fosse meglio se avesse anche creato posti di lavoro per loro, sempre in contesti lavorativi dove si applicasse la Dottrina Sociale della Chiesa.
Il ragionamento principale era che si dovessero creare delle industrie che potessero assumere le persone formate dalla Scuola Politecnica Professionale.
Per comprendere meglio questo passaggio, faremo riferimento al testo “Making Mondragon – The growth and dynamics of the worker cooperative complex”, di William Foote Whyte e Kathleen King Whyte, dove vengono descritte sia la genesi sia l’evoluzione di questa componente di business che oggi conosciamo come Mondragon Corporation. Il libro, edito dalla Cornell University, è stato consultato nella seconda edizione in lingua inglese del 1991, in versione Kindle.
Dopo che la Scuola Politecnica Professionale ebbe sfornato i primi diplomati, questi iniziarono a lavorare nella principale azienda privata della zona, la Union Cerrajera. Nonostante avessero trovato subito lavoro, nelle loro menti si era impressa, soprattutto grazie agli insegnamenti di don José María, la ferma volontà di continuare nella loro istruzione. A prima vista questo proposito era, però, irrealizzabile in quanto non c’era nessuna università nei pressi di Mondragón né tantomeno era possibile ai nostri diplomati lasciare il lavoro per trasferirsi altrove per studiare.
Arizmendi si dette molto da fare per trovare una soluzione, insieme ai neodiplomati, ma purtroppo sembrava che fosse davvero impossibile. Ad un certo punto, però, don José María riuscì a raggiungere un accordo con l’Università di Zaragoza (che si trova fuori dalla regione basca) per cui gli studenti provenienti da Mondragón potevano studiare ma senza dover frequentare.
Dei venti studenti neodiplomati alla scuola Politecnica professionale, ben undici decisero di frequentare l’università per ottenere la laurea in Ingegneria Tecnica. Tutti continuarono a lavorare mentre studiavano e alcuni di loro fecero addirittura carriera nell’azienda raggiungendo qualifiche di operaio specializzato, di supervisore o caporeparto o, addirittura, posizioni amministrative.
Ma nonostante questo, i nostri neodiplomati non si sentivano a loro agio in quanto quelle che oggi vengono chiamate “relazioni industriali” e che sono, di fatto, il dialogo tra l’azienda e i sindacati/lavoratori, erano molto tese. In pratica, la prima generazione di diplomati cresciuta a suon di dottrina sociale della Chiesa si trovava a vivere in un contesto lavorativo estremamente conflittuale e, sulla base degli insegnamenti ricevuti, si rese conto che le loro simpatie andavano in quel contesto verso i lavoratori piuttosto che verso l’azienda.
Poiché non si erano fermati nei loro incontri formativi con Arizmendi, ma anzi continuavano a vedersi almeno una volta a settimana per discutere, ebbero anche l’opportunità di confrontare la teoria e la pratica della Dottrina Sociale della Chiesa, grazie anche all’enorme lavoro fatto proprio da don José María nel guidare le discussioni e nello spiegare fin nei minimi dettagli applicativi e teorici la Dottrina Sociale della Chiesa. Da notare che questa sua attività come docente e stimolatore della discussione continuò a farla per molti anni, tanto che uno dei suoi più diretti collaboratori, José María Ormaechea, riportò che nel 1956, facendo un rapido calcolo, risultò che aveva condotto almeno duemila di questi circoli di studio e discussione, alcuni per un orientamento sociale e altri per un orientamento religioso e umanistico. In pratica, dal 1941 al 1956, don José María condusse almeno una sessione di studio ogni 2,7 giorni, senza considerare feste e vacanze, il tutto in aggiunta al suo normale programma di attività, formative ma anche di altro genere. Infatti, insegnava in varie classi religione e sociologia oltre a portare avanti i suoi progetti operativi di cui finora abbiamo visto solo la Scuola Politecnica Professionale.
Nei primi anni ‘50, la direzione della Union Cerrajera decise di ampliare il capitale sociale emettendo nuove azioni. I discepoli di don José María riuscirono ad ottenere un incontro con il top management e in tale occasione perorarono come urgente il fatto che ai lavoratori venisse data l’opportunità di investire direttamente nella loro fabbrica. Purtroppo, il top management rigettò in toto la loro proposta. Ma i nostri non si arresero e tentarono un’ultima strada: andarono direttamente a Madrid per proporre alle autorità governative di realizzare dei programmi sponsorizzati dallo Stato che permettessero ai lavoratori di ottenere quote azionarie.
Anche questa strada, però, fu sbarrata da un netto rifiuto. A questo punto, essi abbandonarono l’idea di riformare i meccanismi d’impresa capitalisti della Spagna ma non desistettero: cinque di loro, infatti, Luis Usatorre, Jesus Larranaga, Alfonso Gorronogoitia, José María Ormaechea e Javier Ortubay, dissero a don José María che avevano deciso di avviare una nuova società che fosse basata sulle linee guida economiche e sociali che avevano discusso a lungo.
Questi cinque pionieri erano guidati da una visione sociale ben chiara ma, al tempo stesso, stavano anche reagendo alle preoccupazioni sulla loro carriera che erano nate osservando il capitalismo all’opera (per esempio, avevano saputo di palesi e ingiuste limitazioni di carriera per i figli di operai nella Union Cerrajera). In pratica erano giunti alle stesse conclusioni di Chesterton e Belloc sui difetti strutturali del capitalismo.
I nostri cinque discepoli avevano anche intuito che, essendo la Spagna economicamente isolata rispetto alle altre nazioni, qualsiasi fabbrica che potesse produrre un prodotto utile e ben fatto avrebbe avuto successo.
Ma i nostri cinque non avevano alcuna idea di come si potesse creare dal nulla l’organizzazione che volevano costruire. Non avevano nessun modello preconfezionato sia di come strutturare l’azienda né sapevano quali fossero i passi legali e la forma giuridica da utilizzare. Dai loro ragionamenti era però emersa che dovesse essere una cosa molto simile ad una cooperativa di lavoratori.
Svilupparono quindi il concetto di impresa collettiva in un contesto in cui non si era mai parlato prima di un soggetto simile. A causa delle limitazioni del loro sistema bancario, che non consentiva di aprire conti correnti a persone giuridiche collettive come quella che avevano in mente, aprirono un conto cointestato a tutti loro e si fidarono che ciascuno avrebbe prelevato solo quello che era necessario via via che andavano fatti degli investimenti.
Arizmendi, per cercare di ottenere fondi da investire, ideò una strategia per raggiungere la comunità che avrebbe dovuto contribuire alla creazione dei primi progetti di assistenza sociale ed educativa. Per fare ciò ricorse ad un costume locale ben radicato chiamato “chiquiteo”. In pratica, ogni giorno, dopo il lavoro, il gruppo dei nostri cinque amici girava per le strade della cittadina e, spostandosi di bari in bar, sorseggiando vino e chiacchierando con i proprietari e i baristi di quello che si voleva fare, attivava un’incredibile rete di comunicazione informale che in breve tempo fece sapere a tutti che stavano costituendo una fabbrica cooperativa e che cercavano aiuto dalla comunità in forma di prestiti.
Arizmendi e gli altri, ovviamente attivarono anche tutta la rete di conoscenze che avevano.
Sebbene in quella fase non potessero dire praticamente nulla nel loro progetto, perché non lo sapevano ancora, ossia cosa avrebbero fabbricato, dove e con che forma giuridica, comunque ottennero la fiducia della comunità che versò loro ben 11 milioni di pesetas, corrispondenti a circa 361.000 dollari del 1955. Considerando che veniva principalmente da operai e braccianti agricoli, può certamente essere considerata una somma enorme per l’epoca.
Ma c’erano ancora due grossi ostacoli da superare.
Il primo era che, in quel periodo, ai cittadini spagnoli non era consentito creare liberamente imprese industriali ma bisognava avere importanti agganci politici per poterlo fare. Al primo tentativo di avviare una fonderia cooperativa, la loro richiesta fu praticamente bloccata dell’invincibile burocrazia governativa.
Il secondo problema era l’acquisizione dei macchinari necessari e degli edifici.
Nel 1955, i nostri eroi vengono a conoscenza che una fabbrica privata nella città di Vitoria era fallita. Immediatamente la rilevarono, sia come macchinari sia come edifici ma, soprattutto, per l’agognata licenza. Comprando l’azienda fallita entrarono in possesso, finalmente, di quello che gli era stato negato finora attraverso tutti i canali che avevano tentato: l’autorizzazione ad aprire un’impresa.
Dopo aver trascorso un anno nell’edificio a Vitoria, i cinque fondatori e diciotto associati ritornarono a Mondragón in un nuovo edificio da loro stessi progettato. Era il 12 novembre 1956 ed è quella che oggi viene considerata come la data ufficiale di Fondazione della “Ulgor” la prima cooperativa di lavoratori in Mondragón, nonché l’avvio di quello che i cinque fondatori chiamarono “l’esperienza cooperativa di Mondragón”.
Il nome Ulgor deriva dalle prime lettere di due dei cinque fondatori. La Ulgor operò per più di tre anni senza alcuna costituzione in forma giuridica o statuto, ma solo con la semplice registrazione di uno dei suoi fondatori. Questa situazione però non poteva durare perché le autorità governative cominciarono ad essere preoccupate del fatto che un individuo controllasse l’intera organizzazione. La fiducia reciproca che questi uomini avevano tra di loro e in don José María era tale che gli consentì di lavorare informalmente senza problemi. Di continuo facevano riunioni dopo il lavoro, con anche don José Mariá, per discutere come gli aspetti pratici e teorici si stavano sposando nella realtà lavorativa e definire il modello organizzativo con cui lavorare.
Grazie a questo approccio riuscirono a trovare il giusto compromesso tra la pratica e le teorie di Arizmendi. Lo stesso Arizmendi non ebbe mai una posizione formale nella Ulgor, né in qualsiasi altra cooperativa del gruppo, ma ebbe solo il ruolo di consulente.
Con questo terminiamo la seconda parte di questa biografia di don Josè María Arizmendiarrieta.
In realtà, come sarà risultato evidente, questa parte della biografia riguarda soprattutto i cinque fondatori. Ma questa situazione è perfettamente naturale in linea con la Dottrina Sociale della Chiesa in quanto uno dei principi su cui essa si basa è quello di sussidiarietà, ossia che una persona se può fare da sola le cose deve farle da sola. Don José María aveva fondato una scuola perché quei giovani potessero diventare economicamente autonomi e in grado di mantenere le loro famiglie, oltre a contribuire al bene della comunità. E lo aveva fatto non con un approccio speculativo, ma basandosi sui principi enunciati in documenti di qualche decennio prima ma le cui fondamenta risalivano ai Vangeli stessi. Le persone cresciute alla Scuola Politecnica non erano solo eccellenti tecnici ma erano anche in grado di capire le dinamiche del mondo del lavoro e sapevano qual era la direzione per costruire una società più giusta, a misura di persona, fondata su un’etica cristiana.
Ma queste persone non avevano solo questa conoscenza, avevano la consapevolezza che l’impegno di ciascuno, in primo luogo il loro, era necessario affinché le cose potessero cambiare. Erano consapevoli della loro responsabilità in un’ottica di bene comune, che andava ben oltre il mero interesse personale. La Dottrina Sociale della Chiesa, come gran parte degli insegnamenti della Chiesa, si basa sul bilanciamento di esigenze antitetiche. In questo caso, sul bilanciamento tra l’interesse personale, perfettamente lecito, e il bene comune e la solidarietà, anch’essi più che leciti.
I nostri diplomati alla scuola Politecnica avevano capito, perché questo è l’insegnamento della Chiesa, che la maggiore conoscenza era un bene, che la giustizia sociale era un bene, ma non si erano fermati alla sola comprensione, bensì l’avevano applicata nella pratica quotidiana, realizzando, non senza rischi, quello che serviva in quel momento e in quel contesto storico, in pratica quello che serviva nel loro metro di trincea, per usare un’espressione comune su questo blog e tanto cara a Costanza Miriano.
Sebbene discutessero continuamente e continuamente confrontassero la teoria e la pratica, non sprecarono tempo in chiacchiere futili o nel giocare a fare i professori: tutta la loro attività di dibattito era finalizzata a obiettivi concreti da mettere subito in pratica.
Il fallimento della prima esperienza di collaborazione aziendale di Arizmendi, la conflittualità e l’uscita dalla Union Cerrajera e gli insormontabili ostacoli burocratici nell’aprire la prima azienda non fermarono questi uomini, che avevano perfettamente capito che quello che accadeva nella realtà dipendeva solo dalle loro azioni non dalle loro chiacchiere, anche se ricorsero pure alle chiacchiere con il “chiquiteo”!
Cosa abbiamo da imparare noi cristiani del XXI secolo da questi uomini vissuti poco meno di 100 anni fa?
In primo luogo, abbiamo da imparare la necessità di avere una visione lucida di cosa si vuole ottenere e la capacità di indirizzare tutti i propri sforzi in quella direzione, facendo retromarcia quando si finisce in un vicolo cieco, ma senza abbandonarsi alla disperazione, senza cedere.
La seconda cosa che abbiamo da imparare sono la perseveranza e la pazienza che questi uomini hanno messo nel loro operato, consapevoli che stavano operando sia per il Regno di Dio sia per migliorare le condizioni socioeconomiche della loro zona.
La terza cosa, che forse è quella che ci serve di più oggi, è la concretezza dell’azione. Ogni loro passo, ogni loro iniziativa, erano focalizzati sul raggiungimento della loro visione e l’adattamento della strategia al contesto in cui ci si trovava. Noi, oggi, nella civiltà dell’informazione, siamo convinti che inoltrare un post su un social o mettere un like siano azioni concrete e sufficienti ad affrontare dei problemi. La realtà, invece, è che bisogna agire nel mondo reale, con persone reali, puntando ai risultati e non al semplice “poter dire di aver fatto”.
La quarta cosa è stata la speranza, anche questa oggi scomparsa o comunque latitante nel nostro mondo disperato, “sazio e disperato”, come disse Giovanni Paolo II. Un pianificatore territoriale che avesse dovuto pensare dove impiantare un’azienda produttiva del calibro della Ulgor avrebbe quasi certamente pensato a Mondragón come ultimo posto dove ciò potesse essere fatto. Non c’era nessuna condizione perché questa azione potesse avere successo. Eppure, la speranza e la determinazione di questo sacerdote e di chi era cresciuto alla sua scuola hanno dimostrato che, invece, non era un problema di posto.
Con questi suoi primi discepoli, don José María realizzò quello che era il motto di Don Bosco “Buoni cristiani e onesti cittadini”. Dove onesti non significava sudditi ma veri cittadini che hanno a cuore il bene della loro comunità e, di conseguenza, della loro nazione e, ancora di conseguenza, dell’umanità.
Arrivederci alla prossima puntata!
Credits: Immagie di De Desconocido – http://opendata.euskadi.eus/catalogo/-/euskal-herri-enblematikoa-enciclopedia-historia-de-la-ferrerias/, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=40390982