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Educare ed educarsi all’amore

Completiamo, con l’ultimo post, il nostro discorso sulla santità, prendendo il titolo dal terzo capitolo del libro “Farsi santi con ciò che c’è” di Luigi Maria Epicoco, a cui ci siamo fortemente ispirati anche in questo caso.

Tutti abbiamo vissuto l’esperienza per cui la nostra vita ha acquistato un reale valore solo quando ci siamo sentiti amati e quando abbiamo amato.

San Paolo, nel capitolo 13 della Prima Lettera ai Corinzi, arriva addirittura ad affermare che verrà un tempo in cui fede e speranza non saranno più necessarie ma che, in tale tempo, rimarrà solo l’amore, amore che non avrà mai fine. Come se la fede e la speranza divenissero accessorie e non più necessarie, in quanto l’amore sarà più che sufficiente.

È come quando sorge il sole e non servono più le luci. Come quando arriva la primavera e si spengono i riscaldamenti. L’amore ci illuminerà e ci scalderà completamente. Quando arriverà questo momento? Dopo la morte? Alla fine dei tempi? Non lo sappiamo ma comprendiamo benissimo quanto l’Amore, quello Vero, sia totalmente avvolgente, completante, bastante a sé stesso. E coincide con Dio, in quanto “Dio è Amore”.

Quindi, ogni volta che nella nostra vita incontriamo l’amore, ogni volta che ne sperimentiamo la presenza, stiamo incontrando e sperimentando Dio. E il nome proprio dell’Amore è Cristo, la sua incarnazione, nelle nostre tre dimensioni più il tempo.

L’idea di Dio che si percepisce nell’Antico Testamento è quella di un Dio distante, o che comunque mantiene le distanze, proprio perché Lui è Colui che è, il Sommo, l’Onnipotente. Con Cristo questa distanza scompare. Dio si avvicina fino a toccarci.

Nell’Antico Testamento siamo come dei neonati nella culla, che vedono il genitore (l’amore!) dal fondo del loro giaciglio e, sebbene allunghino le manine, non riescono a raggiungerlo. Come se fosse lui, il genitore, a mantenere le distanze. Ma poi, il genitore, padre o madre che sia, si china sul neonato, ecco che questi riesce a toccarlo. Con Cristo è accaduto proprio questo: Dio si è chinato profondamente su di noi perché altrimenti non ce l’avremmo mai fatta a toccarlo. E questo chinarsi è voluto durare ben oltre il breve periodo di trent’anni della vita terrena di Cristo: con l’Eucaristia si è andati oltre, possiamo toccarlo e riceverlo in qualunque momento, purché lo vogliamo.

Guardare negli occhi il Dio dell’Antico Testamento era considerato letale. Guardare negli occhi Cristo, incontrarlo, significa invece ricevere la vita.

Vediamo un primo esempio. Osserviamo l’incontro di Pietro con Gesù. Pietro incontra Gesù non mentre sta pregando, o meditando, o facendo glie esercizi spirituali. Lo incontra in un momento di crisi, in un momento di fallimento.

“1 Un giorno, mentre, levato in piedi, stava presso il lago di Genèsaret 2 e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3 Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca.

4 Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca». 5 Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6 E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. 7 Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano. 8 Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore». 9 Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; 10 così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11 Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.” (Lc 5,1-11)

In questo brano Pietro parla di una notte, una notte sicuramente buia, come spesso è buia la nostra vita, quando ci sentiamo persi, quando non sappiamo dove andare e ci muoviamo alla cieca. Il racconto di Pietro ci ricorda questo nostro grande faticare nel buio senza ottenere nulla, questa nostra sensazione di eterna insoddisfazione, di fallimento, anche quando sembra che abbiamo tutto ma scopriamo di non avere nulla. Ed è in questa esperienza di fallimento che Pietro incontra Cristo.

L’incontro con l’amore nella nostra vita, l’Amore con la A maiuscola, quando arriva riempie la nostra vita, ma non perché le cose hanno cominciato ad andare nel verso giusto. L’Amore con la A maiuscola ci cerca proprio quando siamo più sperduti, più in crisi, più in confusione, più ripiegati su noi stessi. E questa scena nel Vangelo qui sopra la troviamo nei pescatori che sono piegati sulle reti, ma sono reti vuote. Sono ripiegati sul loro fallimento. Sono ripiegati su quello che li devasta internamente.

Quante volte nella nostra vita anche noi ci ripieghiamo sui nostri problemi? Quante volte siamo fissi su quello che va male, su quello che ci rallenta, che ci intralcia, che ci fa soffrire? Quante volte siamo ipnotizzati da tutto ciò che di negativo accade nella nostra esistenza? Ma proprio in quel momento Gesù parla. E questa parola di Gesù ci distrae dalla paranoia delle reti vuote, dalla paranoia di ripiegarsi sul nostro io, dall’essere talmente concentrati su noi stessi da non poter capire che abbiamo incontrato qualcuno che, finalmente, ci riporta alla realtà.

Quando incontriamo Cristo scopriamo che c’è qualcosa di diverso da quello che ci fa soffrire, anzi che c’era un senso in questa sofferenza. Scopriamo che c’è qualcosa di diverso dalla nostra confusione, dalla nostra crisi, qualcosa che dà un senso a tutto questo.

L’incontro con l’Amore con la A maiuscola significa uscire dal ripiegamento su noi stessi. Significa agire per fare qualcosa che ci può sembrare assurdo ma che invece ci salva. Cristo non si siede a parlare con Pietro per consolarlo ma gli dice cosa deve fare. La grande fortuna (o la grande saggezza) di Pietro sta nel capire che deve eseguire questo comando.

E la frase di Pietro, che esplicita una cosa evidente, palese, lapalissiana, ossia che non hanno pescato nulla, è seguita proprio dall’affermazione dell’obbedienza all’ordine di Cristo.

Nessuno di noi può cambiare la propria vita se non raggiunge la consapevolezza di quello che sta vivendo. Nessuno di noi può cambiare la propria vita se non si rende conto che non ha pescato nulla, se non si rende conto che, finora, la maggior parte della propria vita l’ha subita, spesso perché non ha avuto il coraggio di affermare ad alta voce, come ha fatto Pietro in questo brano, la realtà del fallimento che sta vivendo in quel momento.

Educare all’amore significa, come prima cosa, dare un nome alle nostre reti vuote, acquisire la consapevolezza di quello che ci manca. Anche se siamo terrorizzati di dire ad alta voce che siamo infelici, che ci manca qualcosa, che stiamo fallendo. E questa mancanza di coraggio, questo terrore, sono quelli che ci portano a cercare soluzioni fai-da-te, che amplificano la nostra infelicità, spesso avendo come effetto il danneggiare le relazioni con le persone che ci sono vicine.

Queste relazioni non le danneggiamo perché siamo cattivi, ma perché siamo infelici e non siamo stati capaci di riconoscere questa infelicità, e quindi ci siamo ripiegati su noi stessi, danneggiando anche gli altri con questo nostro doloroso egoismo.

Nell’incontro con Cristo, incontriamo Qualcuno che ci aiuta a dire ad alta voce cos’è che ci manca, Qualcuno che ci aiuta a fare quindi il primo passo. Possiamo quindi dire che l’incontro con Cristo è il primo passo dell’educazione all’amore.

Il secondo passo è accettare quelle reti vuote. Il secondo passo è fare pace con quelle reti vuote. Non basta essere consapevoli che le reti sono vuote, non basta essere consapevoli che la nostra vita è infelice, insoddisfacente. Bisogna accettare quell’infelicità e quell’insoddisfazione. Continuiamo a dire che la nostra vita non è come ce l’eravamo immaginata o come la vorremmo. Ma, come per farsi santi dobbiamo usare quello che c’è nel frigorifero, così per cambiare la nostra vita dobbiamo fare pace con come essa è in questo momento.

Quando noi incontriamo l’Amore, quello vero, quello con la A maiuscola è perché abbiamo incontrato Qualcuno che ci fa fare pace con noi stessi, che ci fa fare pace con le nostre reti vuote, con le nostre miserie, con le nostre contraddizioni, con quello che siamo, un qualcuno che ci dà il permesso di dire che possiamo non stare bene, perché è umano a volte soffrire.

Se non riusciamo ad accettare quello che è la nostra vita, fare pace con essa, molto spesso generiamo rabbia che accumuliamo, che cerchiamo di esprimere come possiamo e che, quando non è più possibile gestirla, scateniamo contro qualcuno. Cominciamo, quindi, a cercare colpevoli ovunque intorno a noi e a trovarli, dando la colpa agli altri della nostra infelicità, quando non ce la prendiamo direttamente con noi stessi o addirittura con Dio.

E tutta questa rabbia è una grandissima perdita di tempo perché non ci dà la pace.

Per ottenere la pace non dobbiamo guarire dal nostro male inguaribile, non dobbiamo cambiare la nostra situazione immodificabile, dobbiamo fare pace con quello che c’è. Senza la consapevolezza e l’accettazione non si riesce a comprendere nulla dell’amore vero.

Senza consapevolezza e accettazione stiamo costruendo un grattacielo, ma senza le fondamenta. Nel Vangelo, quello che scopriamo è che Gesù ci libera dalla paura della condanna attraverso una parola che oggi è quasi scomparsa non solo dal vocabolario ma anche dalla pratica: il perdono.

Ma l’esperienza del perdono non è soltanto chiedere scusa per il male commesso, l’esperienza del perdono è divenire consapevoli del male commesso e accettare di averlo commesso ed essere pronti a riconciliarci con noi, ma anche a riconciliarci con chi ha commesso quel male verso di noi.

Fare pace con sé stessi è un dono, un dono che necessita della nostra libertà, un dono che è il grande miracolo del cristianesimo. Il Cristianesimo si fonda su due ingredienti: la grazia di Dio e la nostra libertà.

Ma noi non dobbiamo dimenticarne nessuno di questi due ingredienti. La libertà da sola ci mette di fronte a compiti impossibili. La Grazia da sola ci fa entrare in un mondo magico che non è quello reale. Quando la grazia di Dio si incrocia con le nostre forze, è lì che accade il miracolo del Cristianesimo.

Don Luigi Maria, nel suo libro, porta il grande esempio dell’annunciazione a Maria. Noi spesso raccontiamo questo brano dicendo che il Signore domanda a Maria. Ma in realtà l’angelo non domanda nulla perché non chiede il permesso. L’angelo comunica un fatto.

Quando ci viene diagnosticata una malattia, questa non ti dice “scusa ti vorrei proporre di ammalarti di cancro, sei d’accordo?”. Il cancro te lo ritrovi e basta. Quando ti succede una cosa, questa non ti chiede il permesso nella maggior parte dei casi. Accade e basta.

Dov’è in questi casi la nostra libertà? Semplice, possiamo scegliere di scappare oppure possiamo rispondere come Maria: “Eccomi!”.

“Eccomi!”, in una sola parola è concentrata la grandezza di Maria. Maria ci educa alla libertà perchè ci educa all’”Eccomi!”, cioè a dire sì anche davanti ad esperienze della vita che non capiamo fino in fondo.

Gesù, fondamentalmente, nel Vangelo ha fatto questo, ha fatto una grande educazione all’amore, una grande educazione a dire ad alta voce la nostra miseria, a gridarla come il cieco di Gerico ma anche ad accettarla. Ad accettare che noi siamo questo.

E qui è necessario un passaggio fondamentale. Il passaggio è avere la capacità di lasciarci amare nella nostra miseria. Cerchiamo talmente tanto di amare gli altri che spesso dimentichiamo di lasciarci amare, da Dio come dagli altri. E diventa impossibile donare ad altri l’amore se non ne abbiamo fatto esperienza in prima persona.

Se il primo punto del cristianesimo è amare, il punto zero è quello di lasciarsi amare.

Se non siamo capaci di lasciarci amare non possiamo amare veramente, perché caricheremmo il nostro amore verso l’altro con tutte le nostre frustrazioni.

Per raggiungere questi obiettivi non bastano poche ore, né pochi giorni, probabilmente sarà necessaria tutta una vita, e se non è sufficiente avremo a disposizione il Purgatorio.

Solo quando avremo imparato a lasciarci amare, allora saremo in grado di vedere Dio faccia a faccia. Se non ci riusciamo nella nostra vita, il Purgatorio non è la punizione, ma sono i “tempi supplementari” necessari perché i nostri occhi divengano capaci di rimanere aperti davanti all’immensa luce di Dio, necessari perché diveniamo capaci di accettare questa grandezza.

Viviamo in un mondo che assomiglia a Pietro e ai suoi soci ripiegati sulle proprie reti. Il nostro mondo è un mondo ripiegato su sé stesso, che ha confuso la vita spirituale con una tecnica per il raggiungimento del benessere.

La vita spirituale inizia quando cominciamo a capire qual è la volontà di Dio su quello che stiamo vivendo e spesso questo non è benessere ma malessere. È soprattutto nello stare male che dobbiamo capire qual è la volontà di Dio.

Spesso dell’amore cerchiamo di prenderci solo quello che ci piace. Cerchiamo di evitare la fatica di amare veramente. Perché è faticoso voler bene a qualcuno. Ed è faticoso lasciarsi amare. È faticoso accettare delle parti della nostra vita che sono difficili o complicate.

È molto facile amare il povero bambino della remota Africa. Il difficile è amare la zia Caterina. Perché il bambino della remota Africa non ci importuna ogni giorno come invece fa la zia Caterina. Per questo Gesù insiste sul concetto di prossimo, perché amare è un’attività che si sviluppa a corto raggio e che richiede fatica, impegno, di rimetterci del proprio, come ben sa il Buon Samaritano, il più indegno tra i passanti, ma l’unico che veramente abbia amato quel povero viandante.

Il vero bene non è il benessere, il vero bene è aver incontrato qualcosa che cambia completamente la vita. E questo qualcosa è un Qualcuno. Cristo, nel Vangelo, ci dice che c’è qualcosa di più di quelle reti vuote, qualcosa di più interessante del proprio io e questo è il volto delle persone che ci sono vicine, il volto dei nostri fratelli in Cristo.

Dobbiamo smettere di voler star bene noi, ripiegati su noi stessi e dobbiamo imparare ad aprire gli occhi sul volto degli altri, imparare ad incontrare gli altri, imparare a passare dall’io al tu. Proprio per questo motivo Gesù ha scelto la via dell’incarnazione, perché noi potessimo incontrarlo.

Educarsi all’amore significa educarsi a qualcosa che ci strappa dalla nostra solitudine e ci fa incontrare finalmente il volto dell’altro.

Il punto di partenza è accettare che il mondo non coincide con il nostro io. Tante volte pensiamo che il mondo sia quello che noi sentiamo del mondo, quello che noi percepiamo, non quello che realmente è. E scopriamo che non è così quando la vita ci molla un ceffone, facendoci capire che tutti i nostri ragionamenti non servono a niente.

Educare all’amore significa capire che la realtà è sempre più grande dei nostri ragionamenti, dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni. Quindi la nostra percezione si ingigantisce partendo da quel punto fermo che noi pensavamo essere il nostro io e allargandosi all’universo intero.

La cosa bella del brano di Pietro è che Cristo non li ha abbandonati alla loro esperienza di fallimento ma li ha raccolti, li ha rimessi in piedi e ha fatto capire loro che la vita è sempre molto di più di quello che ci immaginiamo noi della vita stessa.

E quando ci condanniamo una vita di infelicità perché pensiamo che il nostro fallimento non potrà mai cambiare ecco che Dio è lì vicino, immensamente grande, imprevisto.

Dio è un grande imprevisto nella nostra vita. Imprevisto perché arriva nel momento in cui meno ce lo aspetteremmo, quando ormai il nostro fallimento è palese e siamo ripiegati su noi stessi senza speranza. E lì deve intervenire la nostra libertà.

Certe volte l’atto più grande di libertà che possiamo fare è imparare a disobbedire a noi stessi, a disobbedire a quella voce che ci dice che siamo tristi e che non possiamo fare nulla. È questo il senso della frase di Gesù che ci dice che per seguirlo dobbiamo rinnegare noi stessi (Lc 9,23). Cristo ci sta dicendo che dobbiamo imparare ad essere liberi, a non fidarci fino in fondo di quello che ci passa per la testa o per la pancia.

Il Cristianesimo non è una religione masochista che ha il culto del dolore e della sofferenza. La croce è qualcosa che accade dentro la vita e che deve essere trasformata da lapide, tomba, muro, vicolo cieco, a un passaggio, a un’occasione, un’esperienza che ci portino da qualche altra parte.

Educare all’amore significa educare alla speranza, ossia ad aprire varchi nei nostri ragionamenti e nel nostro sentire.

E dobbiamo riscoprire questa speranza. C’è un brano bellissimo negli Atti degli Apostoli in cui Pietro, con un altro, discepolo entra nel tempio e fuori trova un uomo che chiede l’elemosina. Quest’uomo è raggomitolato nella sua malattia e la prima guarigione che Pietro gli dà non è quella di rimetterlo in piedi ma di stabilire un contatto visivo con lui. La prima guarigione è quella di ristabilire una relazione dicendogli “Guarda verso di noi!”. Praticamente Pietro sta dicendo “c’è qualcosa di più importante di quello che stai soffrendo, qualcosa di più importante della tua povertà, guarda me”. E poi gli dice “Non possiedo né argento né oro ma quello che ho te lo do nel nome di Gesù Cristo il Nazareno: cammina!”.

Tutti rimaniamo impressionati dal miracolo ma dovremmo farci impressionare realmente dall’altro miracolo, dal primo, il ristabilire un contatto, una relazione. Come si fa, in termini esistenziali, a guardare le persone negli occhi? Si impara ad ascoltarle, e questo ristabilisce una relazione.

A volte l’amore non funziona nella nostra vita perché non siamo disposti ad ascoltare chi abbiamo di fronte o chi abbiamo accanto. A volte neanche noi stessi siamo disposti ad ascoltare.

L’amore che ci insegna Gesù Cristo è quello di imparare di nuovo ad entrare in relazione. Di conseguenza per noi “casa” non diventa un luogo ma qualcuno.

L’educazione all’amore non è aggiustare o mettere ordine dentro noi stessi, ma è imparare di nuovo le relazioni perché sono le relazioni sane che ci guariscono, anche interiormente. Abbiamo bisogno di qualcosa che ridia vita.

E la Santissima Trinità lo dimostra in quanto anche Dio, l’Essere Perfetto per definizione, ha scelto la forma comunitaria, perché l’Amore vive di relazione. Noi diventiamo perfetti se non impariamo a bastare a noi stessi. Dover bastare a noi stessi è la più grande menzogna del demonio. Noi impariamo ad essere perfetti quando impariamo la perfezione dell’amore, che è la perfezione nella relazione. Se vogliamo capire il termometro della nostra vita di fede dobbiamo guardare la qualità delle nostre relazioni. E ci vuole coraggio per farlo.

Ma bisogna fare attenzione. Una grande tentazione, quando pensiamo di bastare a noi stessi, è di colmare questi vuoti usando le persone intorno a noi. Se noi amiamo per riempire questi vuoti non abbiamo compreso che l’unica maniera per risolvere tali vuoti non è riempirsi ma donare. Se ci apriamo, guariamo anche da quel vuoto. Ma se cerchiamo di riempire quel vuoto esso diventerà sempre più profondo, sempre più vorace, sempre più orrendo. Amare non è riempire la vita, amare è donarla la vita.

Tante volte intendiamo l’amore come prendere l’amore, ma l’amore è un verbo a senso unico solo in uscita. L’amore è solo dare. E questo è il grande segreto che ci libera da quest’ultima tentazione.

Oggi siamo spesso portati a commettere l’errore di concepire l’amore come trasgressione del quotidiano e quindi, quando l’amore diventa quotidiano, allora non riusciamo ad accettarlo. In pratica riteniamo che l’amore divenuto normalità non sia amore. Spesso intendiamo che la quotidianità, la normalità, siano la tomba dell’amore, il luogo dove ci sentiamo svuotati, esauriti.

L’educazione all’amore diventa, quindi, come riscattare la quotidianità e la normalità, a non aver paura delle cose di ogni giorno. Diventa non aver paura della fedeltà e della coerenza.

Non dobbiamo aver paura di dire a qualcuno “Ti amo per sempre”. Perché l’amore o lo si vive per sempre, ogni giorno, oppure non è amore. Un amore diverso da quello quotidiano è trasgressione. Il vero amore è normalità e quotidianità.

Quand’è che una persona riesce a sopportare un lavoro duro, una malattia, una carenza cronica di soldi, una situazione difficile? Quando lo fa per amore. Se dimentichiamo questo, tutte le cose diventano insopportabili.

In conclusione, l’amore non è un’emozione, un sentimento, una filosofia di vita. L’amore cambia realmente la nostra esistenza quando diventa una decisione.

Gesù diceva che se il chicco di grano caduto in terra non muore resta solo, se muore porta molto frutto. A tutti noi spaventa la morte, eppure, se quel seme non accettasse di morire non diverrebbe mai una spiga. Se noi non accettiamo di morire a noi stessi, non diventeremo mai noi stessi. Educarsi all’amore significa accettare di morire a noi stessi ed è questo che, alla fine, ci farà diventare veramente noi stessi.

Morire ai noi stessi significa rinunciare ad essere il centro dell’universo, significa porsi al cospetto di Dio, accogliendone la volontà e donandoci, ogni giorno, al prossimo.

Noi non siamo venuti in questo mondo per cambiarlo in meglio. Siamo venuti per cambiare in meglio noi stessi, attraverso la relazione con Dio e con il nostro prossimo. Rendere il mondo un posto migliore è solo una conseguenza di tale cambiamento interiore.

Credits: Photo by Jon Tyson on Unsplash

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