Terre sacre e cespugli in fiamme
Nei post precedenti abbiamo parlato di un’unica vocazione, quella alla santità. Vorrei riprendere questo discorso per spiegare un po’ meglio come in Luces Veritatis cerchiamo di rispondere a questa chiamata, qual è l’idea di fondo.
Nel nostro manifesto è abbastanza chiaro che parliamo di monachesimo in senso etimologico, ossia di farsi uno con chi ci ha creati. E tale farsi uno lo leggiamo in chiave individuale e comunitaria. Vorrei proprio riflettere su questo farsi monaci.
Intanto premetto che non è un’idea molto originale. Questa tendenza al farsi monaco esiste praticamente da sempre. Sia il monachesimo cristiano sia quello di altri credo, tutti hanno, in genere, questa doppia focalizzazione: sul proprio camino personale di perfezione e sul cammino in comunità. Ma i monachesimi non cristiani mancano di una cosa che invece noi abbiamo: Cristo.
Mi direte che ho detto una banalità, ma chi mi conosce sa che io dico solo cose banali e ovvie nei miei incontri, poiché spesso l’ovvio viene dato per scontato e se ne perde il significato. A me non piace questo perdersi le cose ovvie e semplici, per cui cerco di ripeterle a destra e a manca a tutti.
Per capirci meglio, fingiamo di non essere cristiani. Potremmo essere atei o agnostici o di un’altra religione, ma non avremmo Cristo. E Cristo è importante, è fondamentale. Perché? Perché è l’unico caso in cui Dio, il Creatore, muore per salvare la propria creatura. Ma non basta. Se fosse solo morto per noi sarebbe un bel martire ma non sarebbe Cristo. Cristo è anche risorto.
Cristo è risorto.
Ce lo ricordiamo tutti i giorni che Cristo è risorto? È risorto. Punto.
Ma ci rendiamo conto dell’immensità, dell’incommensurabilità di questa affermazione che facciamo da duemila anni?!
Ogni nostro passo, ogni nostro respiro, dovrebbero essere guidati dalla consapevolezza che Dio ci ama sconfiggendo i nostri due più grandi nemici, la morte e il peccato (che poi sarebbero la stessa cosa, ma soprassediamo per ora) con la Sua morte e la Sua resurrezione.
E allora, quando si capisce questa cosa, ci viene voglia di abbracciarlo questo Cristo, stargli vicino in adorazione perché ci ha liberati dalla schiavitù.
In questi tempi moderni non ricordiamo più cos’è la schiavitù. Pensiamo di essere tutti liberi. Ma poi siamo spesso schiavi di cose che si chiamano dipendenze ma che sono in realtà delle schiavitù. Schiavi della forma fisica e della bellezza, del sesso, del denaro, della fama, del successo, del lavoro, e di tante altre cose, dimentichiamo che siamo stati salvati a caro prezzo.
Da sempre Dio ci chiama alla santità, che sostanzialmente significa volgerci a Lui anche attraverso la relazione con l’altro.
Ed ecco che arriva il concetto di monachesimo. Quando vado a fissare il mio sguardo su Dio ne vengo attratto, se il mio sguardo è sincero. Ma per poterlo fare serve entrare in uno spazio sacro che non è solo intorno a me ma, principalmente, dentro di me. Serve fare silenzio con me stesso, fare pace con i miei limiti e i miei difetti, capire che tutto quello che ho è un dono ricevuto senza meriti, che è la forma massima di Amore: donare a chi non ne ha merito.
Il mondo (o sarebbe meglio dire il male?) cerca di allontanarci da Dio agendo su metodi molto semplici: mostrarci la miseria, nostra e dell’altro, perché venga sottoposta al giudizio. Ma il giudizio è prerogativa di Dio, non nostra. E quindi il male ci spinge a giudicare l’altro, a giudicare noi stessi, affinché distogliamo lo sguardo da Dio.
Ed ecco il monachesimo individuale come prima risposta al tentativo del male di dis-orientarci, richiudendoci addosso, in una involuzione fetale tanto naturale quanto inumana. Naturale perché la nostra natura spiritualmente ferita ci porta a farlo, inumana perché contro il disegno di Chi ci ha creati. Il monachesimo individuale risponde riportando lo sguardo su Dio ed affidandoci a Lui con fiducia. Nell’affidarci a Lui ci rendiamo conto che ai Suoi occhi sono preziose anche le nostre imperfezioni e i nostri difetti, come fanno tenerezza ad un genitore le marachelle del figlioletto.
Come monaci individuali cerchiamo allora di incontrare Dio direttamente, attraverso preghiera personale e vita sacramentale, nell’ottica di corrispondere ad un rapporto di amore che, troppo spesso, è a senso unico.
Ma il monachesimo individuale non è sufficiente. Come Dio che è Uno e Trino, così a noi è richiesto di vivere la nostra storia d’amore con Dio anche attraverso l’altro.
E di nuovo il male cerca di intromettersi, facendomi vedere le miserie e i limiti dell’altro, e giudicandolo. E di nuovo l’errore non è vedere le debolezze altrui, l’errore è volerlo giudicare invece di amarlo. E il monachesimo comunitario è la risposta a questo.
Monachesimo comunitario non significa, necessariamente, entrare in un convento. Significa che nella mia comunità (che può essere la famiglia, il lavoro, la parrocchia, i miei vicini, …) io vivo la mia relazione con l’altro vedendovi Cristo stesso.
Entrambi i monachesimi hanno bisogno di spazi e tempi dedicati ma entrambi hanno anche bisogno di una quotidianità che va oltre la sacralità esplicita e passa per una sacralità continua, diffusa, naturale che costituisce il sottofondo della mia vita.
In pratica, con il monachesimo individuale e comunitario, facciamo rientrare tutta la nostra vita nella pratica della fede.
Ma spieghiamoci meglio.
Partiamo, come già fatto, dalle riflessioni di don Luigi Maria Epicoco nel suo libro “Farsi santi con ciò che c’è” e, più precisamente, dal brano di Mosè e del roveto ardente.
Mosè sta pascolando le greggi del suocero e vede il roveto che arde senza consumarsi. Si avvicina e sente una voce dirgli: “Togliti i sandali perché la terra su cui stai camminando è terra sacra”.
Scoprire la nostra vocazione è molto simile a questo “togliersi i sandali”. La nostra chiamata alla santità passa per l’incontro col prossimo che per noi diventa “terra sacra”. Finché non scopriamo l’altro come terra sacra, la nostra relazione con lui è “sacrilega”, perché lesiva della sua sacralità. Perché continuiamo a pensare che ci troviamo di fronte ad una persona invece che di fronte a Dio.
Il cespuglio di Mosè è secco, e brucia di un fuoco che non consuma. Così l’altro non è meraviglioso, perfetto e splendido. Forse può sembrarlo all’inizio, ma poi diventa secco, spinoso, banale, misero.
Conoscendo l’altro, ad un certo punto lo si guarda come se fosse la prima volta e si sente affiorare sulle proprie labbra “Tutto qui?”. Un essere così misero, così banale, colmo di contraddizioni. “Tutto qui?”.
Questa domanda, sintomo di una delusione profonda, sintomo dell’inizio di una repulsione, apre le porte al giudizio, quel giudizio da cui siamo stati tanto messi in guardia da Cristo.
Guardare all’altro come “terra sacra” significa capire che oltre quella secchezza, quella bruttezza, quella miseria, quel pungere, si manifesta Dio. Siamo di fronte a Dio non perché l’altro sia perfetto ma perché siamo consapevoli di essere in terra sacra.
Mosè si toglie i sandali e, oltre la voce che ha parlato per un istante, sa che l’unica presenza di Dio è quel cespuglio in fiamme. Così noi ci dobbiamo porre davanti all’altro, senza sandali, ossia nella consapevolezza che l’altro è sacro, che è delicato, che non deve essere calpestato. Ed essendo, l’altro, il luogo della presenza di Dio, è un dono che io ricevo come strumento di salvezza.
Ma i piedi nudi ricorrono anche molti libri più avanti nella Bibbia. Immagino abbiate già indovinato: nel Cenacolo, prima di cenare, Gesù indossa un grembiule e si china sui piedi dei suoi discepoli.
L’amore è proprio questo: sapersi piegare sulla miseria dell’altro. Significa amare non solo la parte vincente, bella, magnifica dell’altro. Significa amare soprattutto le sue zone d’ombra, il suo buio.
Amore significa saper carezzare i piedi nudi dell’altro prima del suo volto. Noi sperimentiamo di essere amati quando, mostrandoci nella nostra autenticità, veniamo accolti soprattutto nella parte che non va bene, nella nostra parte oscura.
Ed è la stessa cosa che capita a chi si converte. Quand’è che le persone cambiano vita e si convertono? Quando Dio li accarezza nella loro parte peggiore, quando li fa sentire amati nella loro miseria.
Dio, in pratica, ci dice “Sono disposto ad amarti sapendo bene chi sei. Conosco il tuo nome. Conosco la caverna oscura che è in te. E voglio entrare in quel buio.”. Ed entrando, illumina quel buio.
Il momento decisivo nella relazione con l’altro, cruciale nella vita di una comunità, è quando si impara a chinarsi sui piedi dell’altro, a entrare nel buio dell’altro. Se non ci chiniamo sui suoi piedi o non entriamo nel suo buio, allora lo facciamo vergognare di quei piedi sporchi, di quel buio interiore.
Allora definiamo l’altro, ossia lo giudichiamo, per quei piedi e per quel buio.
Ma perché non dovremmo farlo?
Perché Cristo non lo ha fatto con noi. Gesù ci ha visti per ben oltre quello che sembriamo.
Ma questo significa che dell’altro dobbiamo accettare tutto? Dobbiamo fare finta di niente? Dobbiamo sopportare qualsiasi cosa?
No. Significa non identificarlo con quello che fa ma ricordarci che è attraverso lui che incontriamo Cristo.
Gesù, nella lavanda dei piedi, non li pulisce miracolosamente, in un secondo, come quando trasformò l’acqua di Cana nel miglior vino di quel banchetto. No. Gesù compie un’azione di pulizia graduale, paziente, meticolosa. Rimuove la sporcizia da quei piedi un po’ alla volta, con la pazienza della misericordia.
E quando uno (il solito Pietro) dice a Gesù “Tu non mi laverai i piedi”, Gesù gli risponde “Se io non ti lavo i piedi, tu non potrai sedere a tavola”. E Pietro risponde “Signore, allora non solo i piedi ma anche le mani e il capo!”. E in questa risposta scopriamo quello che finora mancava alla nostra riflessione.
Il nostro atteggiamento nel relazionarci con l’altro non deve essere “io ti lavo i piedi perché sono sporchi, quindi tu sei un problema, ma io che sono migliore di te, risolvo questo problema”. No, non è questa la prospettiva giusta.
La prospettiva giusta è di reciprocità.
Nella relazione di santità, sia essa familiare, coniugale o di altro tipo, bisogna essere disposti a farsi lavare i piedi dall’altro.
Il male vuole farci cadere nella tentazione dell’essere migliori, perché noi ci siamo accorti della miseria dell’altro e quindi noi, migliori dell’altro, lo curiamo, umiliandoci con quella falsa umiltà che in realtà è ostentazione della nostra superiorità.
No. Non è così.
La santità è lasciarsi salvare dall’altro, è permettere all’amore di Cristo di salvarci nell’altro, è rinunciare a salvarci da soli.
Citando testualmente don Epicoco:
“Finché io sono in una specie di autosufficienza redentiva, io basto a me stesso, io mi salvo da solo, anzi sono così bravo che non solo mi salvo da solo, ma salvo pure te, io salvo tutti perché sono bravo. Per quanto l’altro possa essere l’ultimo disgraziato del mondo, la persona peggiore del mondo, è lo strumento privilegiato attraverso cui Cristo vuole salvarti. Lasciati salvare! Decidiamo per la santità quando decidiamo di lasciarci salvare concretamente da Cristo che incontriamo nell’altro, che ci viene donato, come una possibilità aperta nell’impossibilità del nostro egoismo e individualismo.”.
Lasciamoci salvare.
E non dimentichiamo mai che l’altro è “terra sacra”.
Luca Lezzerini
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